Capitolo I – Aspettando il destino

Quella che leggerete fra queste righe è soltanto una questione di cuore, una storia bella e affascinante; da raccontare allo stesso ritmo di un romanzo. Dale Earnhardt era il migliore, poteva fare qualsiasi cosa su una macchina da corsa, ma amava Daytona perché solamente lei sapeva batterlo. Aveva vinto tutto ma dovette aspettare vent’anni per vincere quella gara maledetta. Accadde una sola volta, ma quell’unica volta bastò a dare senso ad un’intera vita.

Il bello dell’amore è che funziona tutto il contrario della vita. Ci insegnano che per trovare qualcosa occorre andarcelo a prendere, ed in effetti è così, almeno per quanto riguarda la vita: in amore invece no, ci vuole pazienza. Bisogna sapere aspettare. Attendere che il tuo destino ci si riveli o più semplicemente aspettare il proprio momento. A quel punto basterà soltanto farsi trovare pronti, preparati, senza alcuna paura, perché tanto se quello è davvero il tuo momento sarai già abbastanza forte per prenderti quello che è tuo. Può bastare una volta o può non bastare un’intera vita, l’importante è non farne mai – dico “Mai” – un’ossessione, perché se qualcosa deve accadere il “Quando” non importa. Deve accadere e basta; ed eccoci qua, a raccontare quello che accadde a Daytona il 15 febbraio 1998.

Quel giorno era uno come tanti altri nella vita di Dale Earnhardt, semplicemente perché di Daytona Dale ormai ne aveva corse parecchie. Aveva vinto tutto, ma gli mancava qualcosa, la corsa più importante di tutte nel campionato che aveva dato senso alla sua stessa vita. Era riuscito a non farla diventare un’ossessione, nonostante la carriera che ormai volgeva al termine, perché sapeva che tanto prima o poi il destino avrebbe bussato alla sua porta, semplicemente perché era il migliore di tutti e prima o poi avrebbe riscosso il suo credito. In vent’anni di corse aveva ottenuto il rispetto necessario per vincere a Daytona, aveva imparato ogni segreto per arrivare in fondo fra i primi e giocarsi la vittoria, aveva imparato a mettere a punto la vettura per quella pista, sapeva cosa fare e come farlo quando gli pareva, ma tuttavia quella restava la sua gara maledetta, un tabù da sfatare ad ogni costo, e siamo sicuri che se Dale non avesse vinto Daytona sicuramente sarebbe morto cercando di riuscirci.

Daytona 500 1979. Dale Earnhardt #2 si classificherà ottavo
Daytona 500 1979. Dale Earnhardt #2 si classificherà ottavo

La sua storia partiva da lontano e non in un giorno qualsiasi. Era l’anno 1979, erano passati vent’anni ormai, ma nessun americano abbastanza vecchio da ricordare dimenticherà mai quel giorno. Da Boston a New York l’America era paralizzata da una delle tempeste di neve più tragiche nella storia degli Stati Uniti e proprio quel giorno per la prima volta una gara di Wiston Cup veniva trasmessa in tutto il continente. Vinse Richard Petty in volata su AJ Foyt, Bobby Allison e Carl Yarborough si presero prima a sportellate e poi a pugni lungo il tracciato; roba d’altri tempi, di corse leggendarie. Dale terminò in ottava posizione: un’impresa per un rookie in un mondo di puritani come quello della Nascar. Mentalità sudista certo, ma per vincere Daytona devi conquistarti il rispetto e lui aveva messo le cose in chiaro fin da subito fatto.

Gli anni successivi portarono un quarto ed un quinto posto e nel 1982 Earnhardt era ormai un pilota passato agli albi delle corse. Aveva ottenuto la sua prima Winston Cup, il suo nome era già grande, ma mancava quel qualcosa che da lì in poi diventerà una vera e propria maledizione. Al fianco degli ordini d’arrivo iniziarono a comparire i vari “Retired”. Uno su tutti quello del 1986, quando la sua Chevy Monte Carlo alzò bandiera bianca proprio nel momento in cui il tabù sembrava sfatato. Nel mezzo dei quattro storici ritiri l’edizione del 1984, quella conclusa al secondo posto dietro Carl Yarborough: una vera e propria beffa per un vincente come lui.

Dale da quel giorno dovette aspettare addirittura il 1990 per avere un’altra occasione. Molte cose però erano cambiate rispetto al 1986, l’ultimo anno in cui ebbe davvero la possibilità di sfatare il destino. Ora la sua macchina era nera, il suo numero era diventato il 3 – e non chiedetemi di scrivere “tre” –  e la sua maledizione era già diventata qualcosa di cui parlare. Quel giorno la Nascar entrava nella storia del cinema. Nell’immaginario collettivo quella edizione passerà alla storia per il successo di Cole Trickle in volata su Russ Wheeler, ma nelle immagini di “Days of thunder” al momento della partenza la macchina nera che s’intravede sfrecciare davanti a tutti non porta i colori della Mello Yello numero cinquantuno, bensì quelli della Goodwrench numero tre. Non poteva perderla, non doveva, perché tutto stava andando come voleva lui. Centocinquantacinque giri al comando e un abisso nei confronti del secondo a sette giri dal termine, o almeno fino a quando Geoff Bodine va a muro in curva uno. Caution. Cope assume il comando, Dale è quarto. Alla ripartenza Bodine di sdebita ed aiuta “The intimidator” a tornare in testa alla corsa. Le immagini degli ultimi due giri sono un parallelo fra Dale e la moglie Teresa: sembra un film, ma la commedia si trasforma in dramma, e all’ingresso della curva tre Dale è obbligato a farsi da parte, lasciando la gloria ad un incredulo Darrike Cope: uno che non aveva mai vinto niente, ma quel giorno aveva vinto Daytona davanti a Dale Earnhardh; un po’ come quando nei film americani il nerd della prima classe si fa la fidanzata del capitano della squadra di football. Roba da film infatti, roba da pazzi, roba che nemmeno Dale sembrava credere possibile. Eppure il vero campione è quello che in questi casi non si dispera, nonostante tutto “The intimidator” la prende con ironia, perché tanto prima o poi il suo momento sarebbe arrivato, sennò non sarebbe stato giusto.

Passarono ancora otto anni e tre secondi posti: nel 93, 95 e 96. La sua frase “Il vincente non è colui che dispone della migliore auto, ma colui che si rifiuta di perdere” si era fatta ambigua e strana. Ambigua perché a Daytona non aveva ancora vinto e strana perché in fondo lui non aveva ancora rinunciato a vincerla. Aveva conquistato sette volte la Winston Cup, aveva raggiunto “The King” Petty, aveva vinto otto shootout a Daytona e per sette volte la gara della Busch Series, aveva fatto sua la 400 miglia estiva, aveva comandato in 196 giri su 200, era il più veloce pilota da superspeedway al mondo, era una nazione intera che ogni anno tifava per lui e anche quel 15 febbraio tutti erano lì per lui. Allo scoccare dei quarantasette anni Dale era tutto questo e finché c’era lui a Daytona tutto il resto diventava noia. Non ne aveva fatta un’ossessione né tantomeno una questione d’orgoglio, si può dire che fosse un sudista atipico, perché aveva fatto arrivare la Nascar nei cuori di tutti e nonostante guerre all’ultimo sangue come quella con Bill Elliott nella “All star race” del 1987 era rimasto genuino e puro, benevolo e gentile, simile in tutto e per tutto a un Dio.

Ogni anno era lui il favorito a Daytona ma ogni anno la perdeva, quell’anno invece no, i favoriti erano diventati i giovani Jeff Gordon e Bobby Labonte, ma nelle corse, come nella vita, vinci in giorni in cui è impossibile vincere e perdi in giorni in cui è impossibile perdere.

Dale Earnhardt Daytona 1998
Dale Earnhardt Daytona 1998

I giri passavano veloci quel giorno. I piloti si scambiavano la leadership e soltanto al centoventiseiesimo giro si vide la Peace Car. Alla ripartenza, dopo l’unica sosta, Dale prese il comando e come al solito non cedette la leadership a nessuno. Passerà alla storia come una delle 500 miglia più veloci della storia, si finì sotto il muro delle tre ore, ma la storia quel giorno iniziò ad essere scritta quando a quattro giri dal termine Jeff Gordon mollò il colpo. Fuori uno. A tre giri dal termine fu il turno dell’amico Ken Schrader, che con un errore in uscita dalla curva tre vanificò le sue chances di vittoria. Fuori due e a quel punto restavano soltanto un paio di giri al termine. Solo Jeremy Mayfield sembra poter rovinare la festa, ma dalle retrovie indemoniato ecco Bobby Labonte. Aveva ottenuto la pole, la sua macchina era velocissima e Dale sapeva che la sua strategia era quella di sorpassarlo all’ultimo giro. All’uscita dalla curva uno Labonte entra nella scia di Ernhardt, sente il sorpasso, adesso o mai più, i motori sono al massimo, in lontananza un doppiato, ma è dietro che la Daytona 500 e la storia di Dale Earnhardt si decidono. Andretti e Lake Speed si toccano, si alza una grossa nuvola bianca, è il giro 199 e la gara si chiuderà proprio in quel giro. Labonte affonda il colpo, è il suo momento, ma il destino decide che per Dale è la fine del purgatorio. Davanti a lui si presenta Rick Mast, doppiato di due giri, messo lì come per miracolo. Dale sa cosa deve fare e sfrutta la sua scia, Bobby non può fare altro che guardare, prova ad andare all’esterno ma ormai i suoi sogni di gloria erano già andati in fumo da un pezzo. Mayfield proverà a reinserirsi anche lui, ma niente da fare: là davanti Dale sta per fare quello che aveva fatto decine di volte: vincere. Una nazione intera si alza in piedi, il pubblico presente grida di gioia, il momento di Dale è arrivato.

Venti anni di tentativi, venti anni di frustrazioni, venti anni di delusioni, ma questa volta no: il suo treno era arrivato e il suo biglietto era per un posto in prima classe. La bandiera a scacchi, il boato della folla e i fantasmi scacciati via per sempre. Ciò che accadde dopo è roba da cinefili, con i meccanici di tutte le squadre a complimentarsi con lui, le lacrime e un intero stato riscopertosi d’un tratto monarchico. Dale aveva saputo aspettare. Un po’ come in amore, sapeva che il suo momento sarebbe arrivato ma non sapeva quando, e proprio come nell’amore il momento giusto arriva sempre così: all’improvviso, quando meno te lo aspetti.

"Silence Lap #3". Il pubblico di Daytona omaggia così la memoria di Dale Earnhardt a dieci anni dalla scomparsa del pilota.
“Silence Lap #3”. Il pubblico di Daytona omaggia così la memoria di Dale Earnhardt a dieci anni dalla scomparsa del pilota.

Non aveva mai corso per arrivare secondo; anzi, una volta sola lo ha fatto: era il 18 febbraio 2001. All’ultimo giro, sempre a Daytona, Dale si trovava ancora una volta primo, ma quella volta il suo scopo non era quello di vincere, lo aveva già fatto, ormai lui era già leggenda e invecchiando era diventato meno egoista. Dale mise in gioco la sua strategia, voleva far vincere il figlio Junior o Michael Waltrip, entrambi in corsa con macchine del suo team, e la sua strategia funzionò alla grande, ma il destino per lui aveva in serbo una fine diversa. Cosa accadde quel giorno in quell’ultimo giro lo sapete. Dale concluderà quella gara a centonovantanove giri, lo stesso numero di giri con i quali nel 1998 l’aveva fatta sua, non avendo mai avuto l’onore di comandare un duecentesimo. Però…chissenefrega dei numeri! La carriera di un pilota si misura in emozioni date. Dale se ne andò via così: nella gara che amava perché gli aveva stracciato il cuore, nelle lacrime ma anche nel bel mezzo di una vita sempre al limite, simile ad un’opera d’arte, affascinante, romantica e romanzesca, come la storia di un amore turbolento e fugace, ricco di sapori dolci e amari, interrotti da colpi di scena sorprendenti, da momenti improvvisi e da una fine leggendaria. Ha dovuto e saputo aspettare il suo momento. Un momento arrivato soltanto una volta, ma va bene anche così, perché per queste storie basta una volta, un istante, a dare senso agli affanni di una vita.

Giacomo Sgarbossa

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