Capitolo III – L’inferno è per gli eroi

Era una mattina di marzo nella Florida inizio anni ’70 e i movimenti culturali del post “Beat generation” erano ancora lontani dalle corse, dove il conservatorismo era ancora padrone di tutto,  nonostante i freschi cambiamenti portati dalla nuova Eldorado scoperta con l’arrivo degli sponsor. Nel paddock di Sebring i soliti piloti più forti del mondo: Henri Pescarolo, Mario Andretti, Jacky Ickx, Rolf Stommelen, Hans Hermann, tanto per citarne alcuni, più tutti i personaggi delle corse americane, come Mike Parks o Dan Gurney. C’è pure il funambolo inglese Mike Hailwood e nella folla gli spettatori scalpitano per fotografare i loro eroi. Tra di loro Louis Galanons, uno dei fotografi più importanti del periodo, che quel giorno portò a casa gli scatti di tutti i suoi beniamini…tutti più uno:

un personaggio insolito ma che prima di capire chi fosse lo incuriosiva soltanto perché “gli ricordava qualcuno”. Un uomo già visto da qualche altra parte, ma quel giorno vestito da pilota, travestito così bene da sembrarlo per davvero. La maglia in cotone bianca con tanto di dolcevita, il fisico scolpito, l’orologio al braccio destro e una coppola sulla testa: il suo marchio di fabbrica. Louis tuttavia, avvicinandosi, riesce a riconoscerlo e gli chiede di potergli scattare una foto.

Steve McQueen, 1970 Photo by Louis Ganalons
Steve McQueen, 1970 Photo by Louis Ganalons

L’uomo lo guarda, non gli chiede chi sia e per chi lavorasse, ma gli chiede soltanto un unico favore:Va bene, ma non chiedermi di mettermi in posa. “Grazie Steve” rispose Louis, perché tanto il nome di quel pilota non era più un segreto e aveva capito che gli aveva chiesto il favore di non mettersi in posa soltanto perché quel giorno non era venuto a Sebring per fare l’attore; Steve McQueen era arrivato fin lì per correre e nemmeno lui avrebbe mai pensato che da lì a poche ore il suo semplice sogno di correre si sarebbe trasformato nel più ambizioso sogno di vincere.

Nessuno, lui compreso, si aspettava niente da quella avventura e manco a dirlo per quella gara si presentò con un piede rotto. Un incidente motociclistico in California sembrava averlo messo fuorigioco ma nella sua testa non esisteva l’idea di rinunciare a qualcosa prima di averci provato. Era atterrato in Florida con una Porche 908 Spyder, un gruppo di meccanici seri e l’amico Peter Revson. Una coppia perfetta, meglio pure di Ginger Rogers e Fred Astaire: uno veniva dall’ovest, l’altro dall’est; li separava un intero continente ma li accomunava lo stesso modo d’intendere la vita. Del primo sapete tutto o quasi, mentre del secondo mi fermerò soltanto col dirvi che Peter Revson rifiutò eredità e patrimoni aziendali soltanto per correre. Non pensava mai alla vecchiaia e forse non è un caso che sia morto a soli trentacinque anni, facendo quello che gli piaceva fare, proprio perché in fondo Peter non temeva la morte, ma piuttosto temeva di morire senza essersi goduto la vita. Eccoli qui dunque, gli eroi di questa storia: uno folle, l’altro ancor di più…e se è vero che chi va col folle inizia a folleggiare, qui c’è da avere paura per davvero.Che amasse le corse e la vita al limite lo si sapeva da tempo; le case produttrici per cui lavorò non fecero mai debiti per pagare società di stuntman, si preoccupò sempre lui in prima persona di scene come il finale de “La grande fuga”, dove saltò in sella ad una Triumph TR6 Throphy il muro di filo spinato che divideva la Germania dalla Svizzera. Una passione poi omaggiata con il film “Le 24 ore di Le Mans”: un fiasco per i botteghini dell’epoca; un reperto unico nel suo genere per gli amanti delle corse. Un film poco più che muto, proprio come i piloti durante una corsa, e per questo vero, fatto appunto da un pilota, quale era Steve McQueen: uno che prima o poi le corse le avrebbe fatte diventare in tutto e per tutto la sua vita; ma fino a quel marzo 1970 restavano soltanto un piccolo diversivo fra tante altre variabili nella sua vita.

Il loro obbiettivo era quello di andare a Sebring per divertirsi, arrivare in fondo e fare bene nella propria categoria. La classifica generale importava poco: erano gli anni ruggenti delle Sports prototype contro le Production Sports e la loro Porsche 908 era iscritta alla categoria prototipi, dove gli avversari più ostili si chiamavano Ferrari 312 P, Alfa Romeo Spyder e Matra Simca 650; più, ovviamente, tutte le altre Porsche iscritte alla gara. Nelle sport invece la lotta come al solito era riservata a Ferrari 512S e Porsche 917. A Daytona, nella gara precedente a Sebring, la Porsche aveva prevalso e all’occorrenza Enzo Ferrari aveva deciso che a Sebring l’unico risultato possibile doveva essere la vittoria. Mario Andretti e Arturo Merzario dovevano comporre l’equipaggio di punta insieme alla coppia formata da Jackie Ickx e Peter Shetty, mentre Ignazio Giunti e Nino Vaccarella avrebbero dovuto essere gli outsider al servizio della squadra.

Ferrari 512S Spyder. Mario Andretti alla guida della vettura numero 19 durante la 12 ore di Sebring nel 1970
Ferrari 512S Spyder. Mario Andretti alla guida della vettura numero 19 durante la 12 ore di Sebring nel 1970

In tutto a quella edizione della 12 ore s’iscrissero ottantatre macchine, ma soltanto settantatre di loro furono in grado di partecipare alle prove e sessantotto riuscirono a qualificarsi alla gara. Sulla griglia la pole position venne ottenuta da Arturo Merzario, capace di battere di un solo secondo la prestazione di Jo Siffert su Porsche 917, mentre Peter Revson non riuscì a qualificare la sua vettura oltre la quindicesima posizione, a nove secondi dal comasco e dietro tutti gli altri rivali diretti nella categoria prototipi.

Tirando le somme dopo quasi sei ore di gara non c’era proprio nulla che potesse realmente turbare i pensieri di Mario Andretti ed Arturo Merzario e così fu fino a metà gara, quando la Ferrari di Jacky Ickx e Peter Schetty, equipaggiata in versione spyder, diede forfait tornando ai box con il differenziale distrutto. Un segnale, una premonizione, che a due ore dal termine si manifestò puntualmente fra le mani di Arturo Merzario: differenziale rotto e addio sogni di gloria. Il comasco la prese male, Mario un po’ di meno; il giorno dopo avrebbe dovuto correre a Reding, nella sua Pennsylvania, e guardando il bicchiere mezzo pieno avrebbe potuto guadagnare qualche ora di riposo in più.

Mario Andretti alla guida della Ferrario a colloquio con Mauro Forhieri durante gli anni in Formula 1
Mario Andretti alla guida della Ferrario a colloquio con Mauro Forhieri durante gli anni in Formula 1

Al muretto box però, Mauro Forghieri  non la pensava allo stesso modo: “Aspetta Mario, non andartene, devi salire sull’altra macchina e vincere!”. “Non ce la faremo mai…” – risponde Mario – “Lo vedremo alla fine” – ribatte Forghieri. Chi correva per Ferrari non poteva rifiutare questi ordini e Andretti non poté rifiutare questa “offerta che non poteva rifiutare”. Dati alla mano alla fine della corsa mancavano poco meno di due ore e la Porsche di Siffert, Kinnunen e Rodriguez guidava la corsa con un abisso di vantaggio. In più ad aggravare il bilancio c’era il fatto che Vaccarella e Giunti erano molto più alti di Piedone e la comodità di guida nelle corse non è certamente un dettaglio trascurabile. Bisognava soltanto sperare in un miracolo che – come accade spesso nelle corse – avviene per ovvi motivi romanzeschi. A poco più di un’ora la Porsche 917 #15 rientra mestamente ai box per un problema alla struttura della ruota: Sebring non perdona – ci risiamo – e questa volta la riparazione sulla 917 sarebbe stata molto più lunga di quella che a Daytona due mesi prima aveva salvato il destino di Olivier e Rodriguez. Difficile spiegare ai giorni nostri quanto fosse importante quel campionato per le case automobilistiche che vi partecipavano. La mentalità nelle corse è ormai completamente cambiata, ma basterebbe pensare che ai tempi, per la 1000km di Monza, si contavano più spettatori che per il Gran Premio di Formula 1. I prototipi e le Sportscar significavano la portata principale di un menù di corse extraraffinato e la sfida Ferrari contro Porsche richiamava l’interesse di moltissimi marchi, come la Firestone ad esempio, che scelse la casa di Maranello per opporsi alle Porsche equipaggiate dall’americana Goodyear. Mario Andretti non si dichiarò mai completamente entusiasta di quelle gomme, ma nella mente di Enzo Ferrari questo avrebbe potuto significare soltanto un modo per evitare complotti a proprio sfavore. A Sebring inoltre tre delle quattro 512S iscritte alla corsa si presentarono in versione spyder, questo perché l’aerodinamica sulla pista della Florida non era così importante come a Monza o a Le Mans, dove la versione coupé garantiva una migliore efficienza, anche se tuttavia, come vedremo più avanti, questa scelta può essere considerata una delle possibili spiegazioni ai fatti che accaddero in quel marzo del 1970. Il telaio delle due spyder infatti, era più leggero e veloce nei tratti lenti, ma all’ingresso della veloce curva a sinistra dopo il traguardo, la struttura si faceva pesante e scomposta sul manto stradale sconnesso che da sempre caratterizza Sebring. Al via però nessuno di questi problemi sembrava realmente poter lasciar pensare ad una vera e propria minaccia e  l’unica preoccupazione sembrava essere quella relativa ai tempi, ma finché Mario Andretti e Arturo Merzario comandarono la corsa con estrema autorevolezza, sembrava che niente e nessuno avrebbe potuto arrestare il cammino delle Ferrari. Col passare delle ore intanto i ritiri diventavano una specie di conta dei morti durante la guerra del Vietnam: Gerard Larrousse e Dan Gurney su Matra fuori ancora prima di partire per un guasto all’accensione e Hans Hermann e Rudi Lins, al volante della Porsche #20, con il motore arrosto. Dopo di loro fu il momento di Tony Adamowicz che, come a Daytona due mesi prima, portò oltre i limiti del possibile il contagiri della sua Ferrari 312. Tony per grazia divina a Daytona riuscì ad arrivare al traguardo; merito anche delle temperature più basse e di una pista con più rettilinei, ma questa volta le cose non andarono alla stessa maniera, perché come detto all’inizio di questo capitolo: Sebring non perdona niente. Pochi minuti più tardi si ritirarono pure Vic Elford e Kurt Ahrens, qualificatisi terzi ma ora parcheggiati lungo la pista per un incidente, e un’ora dopo ecco il primo ritiro di una 512S: la #24 del team NART, portata in pista in versione spyder, ritiratasi per un problema nel pompaggio della benzina.

Forghieri prende da parte Andretti e Giunti per spiegargli le sue intenzioni: “Quando Nino rientra ai box Mario prenderà il suo posto!”, Andretti guarda Giunti negli occhi, Ignazio gli risponde che non c’è alcun problema e accetta le decisioni di Forghieri. Mario sale a bordo della 512S coupé e all’uscita della pit lane gli unici dati certi nella sua testa erano due: il primo era che mancavano novanta minuti alla fine della corsa, mentre il secondo era che in quel momento, anche se in America era l’idolo indiscusso, di colpo si ritrovò solo, perché lo speaker dell’Autodromo aveva voce soltanto per Steve McQeen e urlava indemoniato: “Steve McQueen is in the lead!”.

All’uscita dai box la 908 #48 bianca di Peter Revson svernicia la 512 di Andretti. La folla grida di gioia trattenendo il fiato: tre giri o due alla fine della corsa, tutto dipendeva dall’orologio e dallo scadere della dodicesima ora. Mario diede l’anima per l’ultima volta e sorpassò questa volta definitivamente Peter Revson, che si fece da parte senza opporre un’inutile resistenza. Al traguardo sull’Ulhmann streight allo scoccare della dodicesima ora soltanto ventitre secondi distaccarono le prime due vetture: un niente per una gara di duemilionicinquecentonovantaduemila secondi.

La Porsche 908 numero 48 durante un rifornimento ai box alla 12 ore di Sebring 1979. Alla guida Steve McQueen
La Porsche 908 numero 48 durante un rifornimento ai box alla 12 ore di Sebring 1979. Alla guida Steve McQueen

Rieccoci qui dunque; non mi ero dimenticato di loro, avevo soltanto evitato di parlarne per cogliervi di sorpresa allo stesso modo di chi quella 12 ore di Sebring ebbe la fortuna di vederla dal vivo. Zitto zitto Peter Revson – mica Steve McQueen – aveva fatto il miracolo, si era sobbarcato più della metà delle ore di guida al volante della 908 e aveva portato Steve a sfiorare il cielo con un dito. Sì, avete capito bene: Peter Revson, perché è giusto dare a Cesare ciò che è di Cesare. Steve infatti ebbe grosse difficoltà a guidare la vettura e per questo il vero eroe della giornata – oltre ad Andretti – fu Peter Revson. McQueen comunque ebbe la bravura di non vanificare il lavoro dell’amico e mostrò una discreta abilità al volante, guidando con un piede malandato una vettura non certo morbida come la 908. Un bravo guidatore insomma, ma per provare a vincere Sebring fu necessario il talento di Revson.  Peter, ormai esausto, restò al volante resistendo stoicamente alla fatica e si accollò tutto il peso di uno dei finali più tirati nella storia delle corse di durata. Mario Andretti d’alto canto non ci mise molto a portare al limite la sua 512 coupé: all’ingresso della prima curva non doveva più alzare il pedale del gas e dopo qualche giro riusciva a farla in pieno. Non aveva più la stessa velocità che gli dava la spyder ma in ogni caso, nonostante la scarsa comodità di guida, non gli servì molto per abbattere di sei secondi la miglior prestazione fatta segnare da Vaccarella e Giunti fino a quel momento della corsa. Mario Andretti, continuando così, avrebbe per forza di cose vinto la corsa e solo la strategia di gara poteva considerarsi una possibile minaccia.

E' l'ultima sosta prima della volata finale per Mario Andretti. Davanti a lui un muro di fotografi pronti ad immortalare un momento che diventerà leggenda per la storia delle corse
E’ l’ultima sosta prima della volata finale per Mario Andretti. Davanti a lui un muro di fotografi pronti ad immortalare un momento che diventerà leggenda per la storia delle corse

Lo avevano riempito di benzina fino ai denti, gli avevano montato un treno di Firestone dure come l’acciaio e gli avevano chiesto di dare l’anima cercando di arrivare fino in fondo senza doversi fermare di nuovo. Mario diede l’anima, rimontò e sorpassò Revson, ma a quattro giri dalla fine la luce della riserva si accese sul cruscotto della sua 512S. Oggi li chiamano “splash and go”, ai tempi li chiamavano sempre allo stesso modo ma non si facevano così in fretta come ai nostri giorni. Mario dovette uscire dall’abitacolo e per via del regolamento dovette aspettare la fine del rifornimento, si riallacciò le cinture e ripartì, nonostante una schiera di fotografi che in quel momento si erano messi davanti a lui: un po’ per le foto, un po’ per ostacolarlo nell’uscita, ma vabhé, un tempo le corse erano anche questo e ripensandoci a Piedone viene da ridere nel raccontarlo.

Andretti vinse quella gara da eroe e Revson arrivò secondo, anche lui da eroe, ma non ci fu nessun telegramma da Enzo Ferrari per il suo pilota, soltanto un sorriso al suo rientro a Maranello, mentre per Peter Revson le cose andarono anche peggio: tutti parlarono di Steve McQueen e ancor oggi nessuno ricorda la sua impresa in quel lontano marzo 1970. La mia storia dunque prendetela soltanto come un’apologia storica doverosa e necessaria, per dare gloria a chi la gloria l’ha meritata per davvero e anche se credo impossibile stabilire quale sia stata la più bella gara di sempre, una cosa è certa: quella Sebring non se la scorderà mai nessuno. Non ve lo dico io, perché per motivi anagrafici questa corsa ho potuto soltanto immaginarla nella testa e raccontarvela attraverso le cronache di un tempo, ma vi posso assicurare che quel giorno per stessa ammissione di Andretti, quella fu la vittoria più bella della sua carriera, perché non era una questione di tenere un ritmo e incassare il risultato come in ogni corsa endurance; era una questione di tirare fuori le palle e basta”.

Peter Revson e Steve McQueen celebrano un emozionante secondo posto alla 12 ore di Sebring 1970. Per Steve McQueen questo resterà il miglior risultato ottenuto in carriera come pilota
Peter Revson e Steve McQueen celebrano un emozionante secondo posto alla 12 ore di Sebring 1970. Per Steve McQueen questo resterà il miglior risultato ottenuto in carriera come pilota

Lo fece lui, che era un fenomeno, lo fece Peter Revson, che era un campione, e lo fece pure Steve McQueen, che era un bravo pilota ma soprattutto un grandissimo attore, e per questo motivo siamo sicuri che, se quella edizione della 12 ore di Sebring fosse stata raccontata da un film, certamente non avrebbe avuto bisogno di nessun regista e il titolo non sarebbe stato certamente difficile da trovare; sarebbe bastato cercarlo nella stessa vita di Steve McQueen: “L’inferno è per gli eroi”, diceva il soldato John Rees.

Giacomo Sgarbossa

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